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Finalmente domenica! _ La matita e la soglia

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Sedicesima giornata, 9 dicembre 2012

dal diario di Francesco Savio

Campanellino.

Wittgenstein, dicevamo. Non se ne parla mai abbastanza. Alcuni lo confondono con Lewandowski, ma il centravanti polacco del Borussia Dortmund non ha lo stesso sguardo svagato eppure magnetico. Nonostante questo si muove bene negli spazi (guardate il primo goal ufficiale di Euro 2012 per avere un’idea), non mi dispiacerebbe affatto come numero 9 per la mia squadra, e volendo creare confusione la targhetta col suo cognome potrebbe ben figurare negli scaffali di filosofia, al momento i miei preferiti in libreria. Mi sono messo a parlare di questo col cliente anziano e squilibrato che sabato voleva sapere in quale libro di Nietzsche fosse presente “Il viandante”, probabilmente nel secondo tomo di “Umano, troppo umano”, non precisamente, quello è un altro viandante, e la sua ombra, il viandante normale invece è nella terza parte di Also sprach Zarathustra, infatti, comunque lui voleva spedirlo a quelli del mattino (o de Il Mattino?) che hanno ancora la fotografia di Sarkozy sulla scrivania, e il campanellino. Così mi ha detto l’anziano, e io ho pensato ma questo è completamente matto, campanellino, anche se magari nella sua testa il ragionamento per associazioni d’idee in qualche modo filava diritto: il viandante di Nietzsche, il mattino oppure Il Mattino, Sarkozy, campanellino.

Nel pomeriggio per reazione mi sono messo a leggere Sebald, Austerlitz, non un luogo ma il protagonista del romanzo secondo lo scrittore tedesco, un mezzo sosia di Wittgenstein, Austerlitz non lo scrittore tedesco, specie per via dello zaino che entrambi portavano sempre con sé, quello di Austerlitz comprato per dieci scellini poco prima d’iniziare l’università in un surplus-store in Charing Cross Road dove la merce proveniva da vecchie scorte militari svedesi, quello di Wittgenstein non so. Non facile però leggere Austerlitz giocando contemporaneamente con Pietro a macchinina di legno verde e blu, roba da stare in piedi a girare le pagine e a sottolineare anche se poco, a muoversi per le due stanze giocando e leggendo, piegandosi e alzandosi a ripetizione, almeno fino a quando il fascino dell’Adelphi bianco non ha sostituito nel bambino quello per la macchinina verde e blu e allora addio, l’esercizio di buon padre è diventato impedire con dolcezza a Pietro di distruggerlo l’Adelphi bianco, e di non infilzarsi l’occhio con la matita ben temperata di Radio 3 che avevo preso due anni fa a “Più libri più liberi”, festival letterario romano al quale stavolta non ho partecipato perché purtroppo non mi hanno invitato. Sarà stato per questo motivo che non sono riuscito a farmi piacere Austerlitz fino in fondo (perché ho dovuto leggerlo in piedi o inginocchiato? perché non mi sono recato a Roma?) a differenza del mio amico Fred Perannunzi, scrittore francese che mi dicono essere un po’ come me francese, o meglio io come lui italiano, che mi spiace molto non parlare francese altrimenti lo chiamerei per dirgli Hey Fred ma sei tu ad essere il me francese oppure io ad essere il te italiano? Ma non lo so, il francese, e non ho tempo per studiarlo, altrimenti mi sarei già trasferito in Francia magari sulla Costa Azzurra, oppure a Parigi, questo è ancora da decidere nelle immaginazioni parallele alla mia vita reale.

Non ho altro da dire questa domenica, fa troppo freddo, se non che forse da ragazzo avrei dovuto fare come Wittgenstein, e di ritorno dalla prima guerra mondiale avrei dovuto liberarmi della cospicua eredità paterna con delle beneficenze, e decidere di vivere per sempre senza inutili orpelli, vestendo decorosamente ma con estrema semplicità, tra pochi mobili essenziali e nessun oggetto che non fosse strettamente utile. Ma non ho avuto guerre, non ho avuto padri, non ho avuto eredità, e allora ho pensato bene di andare a lavorare e di lasciare stare la filosofia.

 

dal diario di Antonio Gurrado

Basilica di Sant'Antonio da Padova detta il Santo

Sant’Antonio a Padova.

Oggi è il mio compleanno (auguri; grazie) e mi pongo seriamente il problema se non sia piuttosto preferibile l’onomastico, che è festa verticale e collettiva, a questa celebrazione che invece è individualista e centripeta. Un’autorevole scuola di pensiero sostiene anzi che il compleanno sia da rifiutarsi completamente in quanto festa pagana, o paganizzante che è lo stesso, imposta a colpi di egotismo in una società in cui originariamente fioriva il senso comune del Cristianesimo e quindi esisteva solo l’onomastico, il giorno di tutti quelli che si chiamano come un santo al quale dovrebbero voler rifarsi. Inoltre i compleanni sono una linea retta, un’inarrestabile freccia del tempo che invecchia e uccide, mentre gli onomastici girano intorno a un centro vivificante e quindi scandiscono l’eterno: il 9 dicembre morirà con me ma il 13 giugno resterà anche quando sarò terra per ceci. Ci tengo a specificare la data per chiarire che il mio Antonio patrono è quello da Padova e non l’Abate, nonostante che questi sia il protettore di tutti gli animali. Dev’essersi trattato di uno scambio di persona.

Il dilemma è stato brillantemente risolto da una mia amica che, essendo nata il giorno di Santa Chiara, s’è fatta monaca clarissa e, cambiando nome nell’abbracciare un ordine, ha trasformato il proprio compleanno in onomastico e festa istituzionale. Io non sono altrettanto coraggioso pertanto mi sono limitato, nei giorni scorsi, ad andare a Padova per lasciare una carezza sulla tomba del Santo perché è evidente che, così come senza 9 dicembre non potrebbe esserci Gurrado inteso come corpo che interagisce nel tessuto di una rete sociale e intellettuale, senza Sant’Antonio non potrei esserci io stesso, inteso come anima individuale che un giorno dovrà pur essere giudicata. Sulla scorta di questa considerazione, è evidente che l’onomastico è utile benché progressivamente misconosciuto mentre il compleanno diffuso quantunque può ben essere dannoso.

Io però non sarei altrettanto oltranzista e mi limiterei a dire che il compleanno ricade in quel vasto settore di argomenti che San Paolo derubrica come adiaphora, ovvero indifferenti, come ad esempio l’ortoprassi alimentare degli ebrei. Cosa conta se ci asteniamo dal mangiare il cammello, l’ìrace e la lepre perché secondo il Levitico ruminano e non hanno l’unghia fessa? Io sono onnivoro quindi mangerei cammelli se me li cucinassero, ìraci se sapessi cosa sono e anche eventuali lepri che davvero ruminassero e non avessero l’unghia fessa; mangerei anche grifoni, se solo esistessero, senza per questo sentirmi sminuito nel senso religioso. Allo stesso modo ritengo che le candeline contino quanto l’unghia fessa e che il compleanno, essendo indifferente, cambia senso a seconda dell’uso che se ne fa.

Se uno lo utilizza per farsi riempire di regali vacui mentre non sa nemmeno in che giorno, poniamo, si festeggi San Siro, allora lo utilizza male; se lo utilizza per voltarsi indietro e piangersi addosso alla vista di persone e cose perdute mentre saliva per i tornanti, allora lo utilizza malissimo; se lo utilizza come pietra miliare per controllare su riscontri oggettivi di essere diventato una persona più decente rispetto a dodici mesi prima, e per rendersi conto e ringraziare per tutto ciò di cui non s’è troppo lamentato nell’anno precedente, allora lo utilizza bene. È senz’altro una forma pagana ma non per questo implica paganesimo. Ieri ero a Messa al santuario pavese di Canepanova e mi accorgevo per la prima volta dopo tanti anni che sopra le statue di Re e profeti dell’Antico Testamento avevano dipinto le sibille; il Cattolicesimo etimologicamente è un fiume che travolge tutto e s’ingrossa per i detriti, quindi non sta a fare troppi distinguo sull’essenza pagana delle sibille o dei grifoni o del compleanno se vengono usati in maniera cristiana.

Indubbiamente rimpiango i 9 dicembre dei festeggiamenti familiari, e soprattutto quelli in cui Rijkaard faceva vincere al Milan la Coppa Intercontinentale o in cui mi alzavo apposta dal letto dell’influenza per guardare un derby di Torino rinviato per neve e trasmesso in diretta, senza bisogno di pagare, dalla Rai; quelli in cui ero un buon selvaggio che guardava il campionato più bello del mondo nel momento più bello della storia, inconsapevole emulo di Vittorio Sereni che scopriva un raggio di sole trafiggere San Siro (lo stadio) e si diceva: “Passiamola questa soglia una volta di più”. Però l’infanzia ha fatto il suo tempo, indipendentemente dal comportamento di molti miei coetanei. Mettendo in fila tutti i 9 dicembre della mia vita mi rendo conto che nel mio animo c’è un progresso e che dunque la mia vita ha un senso, il quale ovviamente non può essere deciso da me in quanto sarebbe come pretendere che il mare è stato inventato da chi ci nuota. Se alla sera del 9 dicembre dico: “Bene, non ho rimpianto nessuno dei 9 dicembre precedenti perché non voglio agitarmi cercando di trattenere le ombre”, allora vuol dire che sono cresciuto e che tanti compleanni sono serviti a qualcosa; se non altro a ricordarmi ogni dodici mesi che i patimenti affastellati nei giorni comuni formano un tutto coerente pertanto devo smettere di considerare la mia vita con la lente d’ingrandimento anziché col telescopio. Come mi spiegava ad personam il Salmo di ieri: “Nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni”.

Detto questo, pare che gli ìraci siano dei mammiferi esotici noti anche come procavie, la lepre ha l’unghia fessa ma non rumina affatto mentre San Siro (il santo) si festeggia il 9 dicembre ed è il patrono di Pavia, la città dove sono finito a vivere senza che potessi aspettarmelo quando sono nato.


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